Oggi, in occasione del Giorno del Ricordo, abbiamo depositato una corona di alloro al monumento ai Martiri delle Foibe di Corso XXVI febbraio ad Aosta.
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Nel frattempo, in Consiglio regionale, i nostri Consiglieri sono intervenuti per ricordare le vittime della follia comunista che ha mandato a morte migliaia di persone con la sola colpa di essere italiani.
«Norma Cossetto – ha raccontato il Capogruppo Andrea Manfrin -, una studentessa universitaria istriana, venne torturata, violentata e gettata in una delle tante foibe che caratterizzano il territorio della Venezia Giulia assieme ad altri 25 sventurati nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943. La sua storia è stata spesso considerata emblematica per descrivere i drammi e le sofferenze dell’Istria e della Venezia Giulia.
Norma Cossetto era una splendida ragazza di 24 anni di Santa Domenica di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l’Università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i comuni dell’Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo “L’Istria Rossa” (Terra rossa per la bauxite).
Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone. Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici.
A fine settembre 1943 Giuseppe, il cugino, assieme a Licia Cossetto, va in bicicletta ogni giorno a Parenzo dove Norma viene tenuta prigioniera. “A prenderla è stato un titino con una stella rossa sul berretto, armato e con una motocicletta” scrive il cugino sul diario. “Abbiamo trovato un carceriere un po’ più cosciente, che ha fatto venire sulla porta la Norma. È stato un momento commovente”. Licia e la sorella prigioniera scoppiano a piangere. È l’ultima volta che Norma Cossetto viene vista viva dai familiari: “Così magra, stanca, mal vestita, spettinata”. Per Giuseppe sono i segni che confermano “le voci in giro delle violenze che subiva”.
Dopo una sosta di un paio di giorni, tutti i prigionieri vennero trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, quindi gettata nuda nella Foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani. Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio urla e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udì, distintamente, invocare pietà.
Nel diario il cugino ricostruisce l’infoibamento di Norma e degli altri italiani. Un abitante di Villa Surani gli racconta della fila dei condannati che arriva «alle 4 del mattino del 5 ottobre e i cani cominciano ad abbaiare». La colonna scortata dai boia di Tito sparisce «nel bosco verso la foiba». È l’ultimo atto rappresentato con cruda realtà anche dal film “Foiba Rossa”: “Dopo 10-15 minuti (si sentono) una o due mitragliate, (poi) il silenzio”.
Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, recuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate.
«Mi ha raccontato tutto che ero già adulta – ha raccontato Loredana, seconda cugina di Norma – Papà soffriva molto per questa tragica vicenda vissuta in prima persona. Ci portava sui luoghi del calvario di Norma e piangeva». «Quando i pompieri ci avvisarono del ritrovamento mi dissero di prendere un tronchetto per tagliare il filo di ferro dalle mani legate» scrive sempre il cugino che assiste assieme a Licia, sorella di Norma, alla riesumazione del corpo dalla foiba di Villa Surani. «La salma era nuda, coperta solo da una canottiera, anche quella strappata. Non c’erano segni di arma da fuoco. È probabile che (Norma) sia stata gettata viva» nella foiba. Il corpo della studentessa «colpevole» di essere la figlia di un proprietario terriero, è pieno di lividi, le gambe scomposte e con ferite da coltello ai seni.
Dopo il recupero dei corpi dalla foiba, le salme vengono spostate nella chiesetta di Antignana, dove alcune donne del posto portano Giuseppe alla scuola, tappa del calvario di Norma stuprata dai 17 partigiani. Dalle finestre guardavano e sentivano la voce di una ragazza di 23 anni che piangeva e chiamava mamma, aiutami» scrive il cugino della vittima. Le testimoni del paese raccontano di lamenti «di ogni genere» provocati dalla brutale violenza «dei carcerieri di Tito (…), aguzzini, violentatori, carnefici».
La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier. Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l’ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima, nell’attesa angosciosa della morte certa. Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all’alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra.
Norma è l’ultima a venire scaraventata nella foiba, ma la sua storia rimane un tabù per mezzo secolo. Solo nel 2005 il presidente Ciampi la onora con la medaglia d’oro al merito civile. Oggi è custodita a Roma dal nipote Vittorio in ricordo del sacrificio di Norma, la martire istriana.
Questa storia, singola, non basta a definire le sofferenze, infinite, atroci, ingiustificate, a cui vennero sottoposti una cifra ancora incerta di connazionali, ma che gli storici individuano in 10.000 unità. Persone cadute non perché stessero combattendo, non perché avevano in pugno un’arma o indossassero una divisa, bensì semplicemente perché italiani, rappresentanti di una identità diversa di quella terra che i partigiani comunisti sloveni volevano occupare.
Così caddero professori e commercianti, funzionari e studenti, sotto l’odio cieco di chi, per una causa politica ben precisa, voleva liberarsi di quei testimoni scomodi, di quei rappresentanti di quella terra bellissima e martoriata che un domani avrebbero potuto rappresentare un ostacolo alla conquista territoriale e politica dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.
Altrettanto drammatica è la storia dell’esodo di 300.000 persone, scacciate da quella terra che abitavano da secoli, con l’unica colpa di essere italiani.
Persone che dovettero lasciare casa, mobili, averi e ricordi, per finire in una terra sconosciuta e lontana, che non potevano certo chiamare casa.
Per comprendere quel dramma è utile leggere oggi, ancora una volta, le crude pagine scritte il 30 novembre 1946 sulle colonne del democraticissimo “L’Unità”, commentando proprio l’arrivo di queste persone che avevano perso tutto e che stavano transitando in diverse città.
Oggi ancora si parla di «profughi». Altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori.
Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano quì da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici. Non possiamo coprire col manto della solidarietà coloro che hanno vessato e torturato, coloro che con l’assassinio hanno scavato un solco profondo fra due popoli.
La sola lettura di queste parole ci spiega, in maniera efficace, quale fosse il clima dell’epoca verso queste persone, scacciate dalla casa da cui abitavano e rifiutate perché non avevano adorato i partigiani titini, gli stessi responsabili delle foibe.
Ecco perché nasce questo giorno, ed ecco perché è importante celebrarlo, più che mai oggi, in questi giorni in cui fioriscono i convegni negazionisti o giustificazionisti, alcuni sostenuti perfino da assessori di questa Giunta. L’eccidio delle Foibe, così come tutti gli eccidi, è stato frutto di una barbarie che nessun convegno potrà mai cancellare.»
Anche il Consigliere Luca Distort è intervenuto nel dibattito in Aula: «Nel mio recente intervento in occasione della giornata della Memoria, ho parlato del Mysterium iniquitatis, di quel male che non riesce ad agire di per sé: ha sempre bisogno di un soggetto che lo ospiti e di complici che lo assistano.
E in questo processo maligno i complici non sono solo gli attori del crimine o i servi esterni che hanno permesso le azioni di contorno al crimine o gli omertosi che non lo hanno denunciato, ma anche quei MACCHINATORI che si impegnano, nel tempo, a negare il crimine commesso, a diminuirne la gravità e a sviarne la verità: ancora oggi leggiamo messaggi complici di questa regia maligna che collocano la celebrazione del Giorno del Ricordo del crimine delle Foibe come “revanscismo fascista”.
Succede sempre così: quando non riesci a sostenere lo sguardo sulla verità, la cambi, la confondi, la tradisci o, addirittura la neghi.
Noi, come istituzione, abbiamo il dovere di consegnare alle nuove generazioni il vigile e attento ricordo di quanto l’uomo può diventare diabolico, soprattutto quando un’ideologia diabolica ne giustifica gli atti e soprattutto quando una macchinazione condotta per decenni e decenni da parte degli interpreti e degli eredi di quella stessa ideologia hanno cercato e cercano tutt’ora di minimizzarne l’orrore.
Ma la storia va trattata da storia con coraggio, con rispetto e con rigore.
Soprattutto quando la storia è scritta con un inchiostro particolare: il sangue.
E ricordiamoci che una società che ignora la sua storia non ha passato ma soprattutto non ha futuro…»
Il Consigliere Christian Ganis ha infine aggiunto: «Nel 2005 gli italiani furono chiamati per la prima volta a celebrare il Giorno del Ricordo, in memoria di tutti gli italiani torturati, assassinati e gettati nelle foibe dalle milizie della Jugoslavia di Tito alla fine della Seconda guerra mondiale.
Le vittime dell’eccidio delle Foibe furono tra le cinquemila e le diecimila circa.
Ad essere uccisi non furono solo fascisti e avversari politici, ma anche e soprattutto civili, donne, bambini, persone anziane e tutti coloro che decisero di opporsi alla violenza dei partigiani di Tito.
Quella della strage delle Foibe è una storia tragica e disumana, a lungo rimasta nel silenzio, e solo negli ultimi anni portata alla luce.
La memoria delle vittime delle foibe e degli italiani costretti all’esodo dalle ex province italiane della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia è un tema che ancora divide ma questo non deve distogliere dal fatto che tutte quelle persone meritano, esigono di essere ricordate.
Perché ricordare è una espressione di umanità, ricordare è segno di civiltà, ricordare è una condizione per un futuro migliore affinché queste crudeltà , nei giorni nostri, non accadano più.»